IRÆ - This is (Not) the End

Nero

di Paolo Canevari

Testo di Cristiana Perrella

Nero come le strisce sull’asfalto lasciate dagli pneumatici fumanti delle custom car di Gioventù bruciata.

Come il grasso di macchina sotto le unghie degli Hell’s Angels, come gli occhiali che trasformano Cate Blanchet in Bob  Dylan in Io non sono qui di Todd Haynes. Nero come la pelle del giubotto di generazioni di ribelli, come la frangetta di Betty Page, come il ciuffo di Little Richard. O come le nostre notti più belle dei vostri giorni. Come il fucking and dancing del l’introvabile Black Album di Prince. Nero come un rogo combusto fino in fondo, come l’ombra. Nero mai uguale, lucido e opaco, setoso e granuloso, brillante e cupo. Nero come il quadrato di Malevic, come un monocromo di Ad Reinhardt.   Nero come un buco nero, come il vuoto infinito che riescono a creare le opere dello scultore Anish Kapoor,  che del nero più nero -il Vantablack- si è comprato i diritti esclusivi. Nero come il Grande Nero di Alberto Burri. Nero come l’inchiostro, che scrive e che cancella, come il petrolio, come il fumo nero, come i veleni che spargiamo sul pianeta. Come il lato oscuro, come il punk, come i dark, come lo smalto sulle unghie di Lou Reed, come gli anfibi dei Clash. Nero come il Black Power e come le pantere. Come il rettangolo della censura, come un tatuaggio sulla pelle, come gli abiti di Yohji Yamamoto, come le bandiere anarchiche.

Nero che è uno stato d’animo e che riassume e consuma tutti gli altri colori, come diceva Matisse.

C’è tutto questo e molto altro nella scelta di Paolo Canevari per il primo numero speciale di IRÆ dove il nero si sovrappone ai contenuti del magazine, azzerandoli. Tabula rasa.

Un gesto semplice e radicale, come quelli che caratterizzano tutte le opere dell’artista romano, trent’anni di carriera tra disegno, scultura, animazione, video, installazione e performance. Linguaggi diversi, legati dall’ uso di materiali quotidiani, oggetti che hanno avuto un’altra vita prima di essere arte – copertoni usati, lenzuola, fumetti, olio esausto industriale- e da immagini immediate, forti che sono la riuscita sintesi di molti riferimenti, di molto pensiero, di molta storia. Immagini che tengono insieme un tono alto e un tono popolare.

Le sue opere sono icone, rappresentano simbolicamente significati complessi ma lo fanno attraverso una forma che è chiara a tutti, che arriva diretta, senza bisogno di mediazioni, di spiegazioni.

Forma che Canevari “vede” dentro i materiali comuni, come una seconda possibilità che li può trasformare con apparente agevolezza in una cosa inaspettata. Come quando, all’inizio della sua carriera, prende delle camere d’aria di camion, le taglia, le apre, e con un solo gesto le trasforma in elmi, in maschere tribali, in colonne barocche. O quando estrae dalla circolarità massiccia di vecchi copertoni l’immagine iconica del Colosseo.

È sempre la materia che guida, che è il punto di partenza per l’interpretazione dell’opera. Ma l’elemento cardine, simbolico e concettuale, il segno riconoscibile, è il nero. Nera è la gomma, materiale prediletto, piegata a cento usi differenti; nero è l’inchiostro che traccia grovigli da cui emergono animali mitici, lupe, aquile, polpi giganteschi, o che si spande in macchie dando corpo a figure spaventose; nero è l’olio di motore in cui immerge la carta da incisioni o le pagine di un libro, facendo emergere paesaggi malati, profili dolci di colline desertificate dall’inquinamento. Non c’è spazio per altri colori nell’arte di Canevari se non il bianco o, recentemente, l’oro che del nero è immagine speculare e riflette la luce dove il nero l’assorbe. 

Colori che contengono mondi e che indicano tutti un’aspirazione metafisica, un desiderio d’assoluto. Che per Canevari però non vuol dire mollare la presa sulla realtà.  Anzi. Il suo lavoro affronta i grandi temi del presente in modo netto, anche se mai ideologico. 

L’ecologia, le guerre di religione, le questioni geopolitiche, la retorica del potere, il razzismo. Con la capacità dell’arte di farci sentire le cose per poi pensarle. Con l’ironia dell’intelligenza che sa come non essere mai dogmatica. Con l’evidenza di gesti che hanno nella semplicità la loro forza.

Paolo Canevari

Paolo Canevari nasce a Roma nel 1963, artista di terza generazione in famiglia.

Dalla sua prima mostra personale nel 1991, in cui ha iniziato a utilizzare camere d’aria e pneumatici, Canevari ha sviluppato un linguaggio personale volto a rivisitare gli aspetti quotidiani e più intimi della memoria.

Nel corso degli anni, e attraverso l’impiego di una varietà di media e tecniche, dall’animazione ai disegni di grande formato, video e installazioni, i suoi progetti hanno assunto una forte connotazione concettuale.

Concentrandosi sull’uso di simboli, icone e immagini che fanno parte della memoria collettiva, le sue opere invitano spesso gli spettatori a un confronto diretto.

L’artista è stato invitato a partecipare a diverse biennali in tutto il mondo, tra cui la Biennale di Liverpool 2004; la Whitney Biennale (2006), la 52a Esposizione Internazionale alla Biennale di Venezia (2007). Ampiamente esposte presso importanti istituzioni di tutto il mondo, le opere di Canevari sono apparse (tra le altre) alla Galleria Nazionale e al MACRO, Roma; MART, Rovereto; Museion, Bolzano; The Drawing Center, PS1 Contemporary Art Center e MoMA, New York; IMMA, Dublino; KW, Berlino; Parkview Green Museo d’Arte Contemporanea, Pechino.

I pezzi di Canevari fanno parte di prestigiose collezioni museali internazionali come MoMA, New York, Fondation Louis Vuitton pour la Creation, Parigi, MACRO di Roma e MART, Rovereto.